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Cari amici,
vi posto con gioia la sintesi di una ricerca del prof. Sergio Audano sul tema suindicato, sicuro che susciterà appassonate discussioni.
Sergio Audano
MITO E ANTIMITO DI ROMA NELLA QUESTIONE MERIDIONALE
Questa relazione si propone sostanzialmente come verifica di un’idea di ricerca, ovvero quella di valutare, laddove possibile, il ruolo del mito di Roma nelle discussioni e nelle riflessioni di ordine storico-politico sulla genesi della questione meridionale.
Volutamente ricorro alla categoria indefinita di “mito” per indicare una realtà che è stata e viene tuttora percepita come indefinita nello spazio e nel tempo: alla Roma “storica” di un passato lontano, fatto di conquiste, spoliazioni, imposizione di simboli e culture profondamente diverse, si associa anche, spesso intrecciandosi, la percezione, tutta attuale, di una “Roma” lontana, intesa come sede del potere distante dai problemi reali e del tutto incapace, pur nel variare dei regimi politici e delle maggioranze di governo, a porre rimedio ai secolari problemi che attanagliano il Mezzogiorno.
Lo svolgimento sistematico di un tema del genere è naturalmente lungo e complesso, richiederebbe un lavoro molto più articolato, che ora è solo all’inizio, e non può concentrarsi nell’ambito di una sola relazione: proverò, pertanto, a giustificare questo assunto e a verificarne la portata, scegliendo deliberatamente di operare su un piano sincronico piuttosto che diacronico, soffermandomi quindi su un preciso momento storico, analizzato da un autore altamente rappresentativo.
Mi concentrerò esclusivamente su Carlo Levi e sul suo celebre Cristo si è fermato a Eboli: com’è noto Levi, liberale torinese di formazione gobettiana, fondatore a Parigi del movimento “Giustizia e Libertà” insieme con i suoi amici Nello e Carlo Rosselli, per la sua opposizione al regime fascista venne confinato in Lucania dall’estate del 1935 alla primavera del ’36. Sono gli anni della conquista italiana dell’Etiopia e della fondazione dell’Impero, gli anni in cui il regime attua una capillare propaganda in cui il mito di Roma antico e soprattutto quello della Roma imperiale sono riproposti ossessivamente attraverso parole d’ordine, immagini al cinegiornale, pubblicazioni, eventi di ogni tipo (come i primi kolossal, come il ben noto Scipione l’Africano di Carmine Gallone, di cui Mussolini ben intuì la portata mediatica), allo scopo di mettere in evidenza la continuità politica tra il lontano passato e il presente, anch’esso coronato dal sogno imperiale.
Come ha notato Luciano Canfora, nei suoi numerosi studi dedicati alle ideologie del Classicismo in età fascista, non sono pochi gli studiosi dell’antichità che prestano consapevolmente la loro opera in questa operazione di deformazione storica: il messaggio che arriva agli Italiani è quello dell’affermazione del destino imperiale di Roma, in spirito ideale di continuità col passato remoto della storia romana, ma in aperta rottura col passato più prossimo, in particolare con la mediocre “Italietta” di giolittiana memoria, incapace di assegnare all’Italia quel “posto al sole” che la storia richiedeva.
La storia delle diverse ricezioni del mito di Roma nella cultura e nella storia moderna è particolarmente lunga e complessa ed è stata recentemente tratteggiata da Andrea Giardina e Andrè Vauchez: è un mito che meglio di altri si è prestato ad offrire una ampia gamma di interpretazioni, ed ha la particolarità di rielaborarsi nel corso della storia spesso sintetizzando correnti ideologiche tra loro antitetiche. Se è vero che il recupero di molte delle principali simbologie romane, che il regime fascista riproporrà successivamente in modo sistematico, è anteriore al regime stesso, come già da tempo è stato messo in luce (e da matrici culturali anche profondamente diverse, come il democraticismo di Mazzini e Garibaldi, quest’ultimo il primo ad adottare il termine “duce”, al nazionalismo di D’Annunzio, in particolare al tempo di Fiume), tipicamente fascista è, invece, l’esaltazione della figura del capo: Mussolini, fondatore dell’Impero, viene, quindi, accostato alle figure cardine della storia romana, da Cesare a Ottaviano. Già qualche anno prima, nel 1933, lo storico Mario Attilio Levi, nel suo “Ottaviano capoparte”, aveva adombrato nell’antico romano il precursore politico e ideale del duce. Il parallelo diventa per così dire scontato, oltre che obbligato, dopo il 1936, quando pullula un’intera pubblicistica volta a comparare i due personaggi: spesso l’eccesso di zelo fa ombra al giudizio storico e non mancano scritti che suonano oggi come marcatamente ridicoli, come l’ “Augusto e Mussolini” di Emilio Balbo del 1937, in cui si leggono affermazioni sconcertanti come “la distanza tra il figlio adottivo di Cesare e la figura poliedrica di Mussolini è così grande che il tentativo di stabilire un termine di paragone è rimasto nella penna. Mussolini lo supera e sovrasta di gran lunga con la sua potente personalità e col suo genio che conosce il tormento della creazione”.
Anche il quasi coevo bimillenario della nascita di Virgilio, risalente a qualche anno prima nel 1930, era stato celebrato con rutilante esibizionismo:come ha notato sempre Canfora, la ricorrenza era stata “il primo esperimento di celebrazione culturale di massa sorretta da espliciti intenti politici”. La celebrazione aveva esaltato il ruolo del poeta come vate dell’idea imperiale di Roma, idea che si attuava concretamente nella storia, per usare le parole di Antonio La Penna in suo importante saggio sulla figura di Concetto Marchesi, significando “conquista, pace dopo la vittoria, ordine, senso della gerarchia e dello stato”, che trova in età moderna la sua attualizzazione, si potrebbe aggiungere, proprio nella figura del duce, sintesi suprema, nella sua spiccata personalità, di questo processo storico. Ne è riprova la voce dedicata al poeta nell’Enciclopedia Italiana, composta nel 1937 da Augusto Rostagni, studioso assai sensibile ai temi di riflessione propriamente poetica, il quale, tuttavia, delinea un profilo del poeta in gran parte adattato alle nuove parole d’ordine del regime, visto che viene presentato capace, nonostante il suo temperamento “elegiaco” e quindi antieroico, di cogliere le violenze imposte dalla necessità storica, sublimandole in un nuovo ordine politico e sociale, di cui era implicito il parallelismo con la situazione contemporanea.
Il mito di Roma imperiale e la fondazione dell’impero fascista si intrecciano, quindi, indissolubilmente in quel periodo: quelli dell’impresa etiopica sono proprio gli anni in cui Mussolini conosce il suo principale consenso politico, se anche persino antifascisti di chiara fama, come lo storico Gaetano De Sanctis, uno dei pochi docenti universitari ad essersi rifiutato di prestare il giuramento imposto dal regime, approvò la conquista.
Il mito di Roma è, quindi, usato politicamente per dimostrare il dinamismo della storia, l’orgoglio militare ed espansionista, l’appartenenza a una civiltà superiore che era incaricata dalla storia stessa, attraverso il regime fascista, di promuovere un nuovo ordine: e in chiave politica, secondo una modalità tipica dei regimi totalitari, come aveva proprio in quegli anni denunciato il filosofo Ernst Cassirer, vengono reinterpretate tutte le categorie simboliche che costituiscono il linguaggio del mito stesso.
Carlo Levi è tra i pochi a intuire lucidamente l’appropriazione tutta politica del mito di Roma da parte del fascismo e a non ridimensionarla nel limbo banalizzante di una mera parata coreografica: intuisce altrettanto bene che questa coreografia romanizzante non intende affatto “épater les bourgeois”, ma al contrario costituisce, sia nella dimensione simbolica sia nel suo riflesso politico, quel sostrato in cui si identifica la piccola borghesia italiana, fino ad allora priva di riferimenti storici e ideali, che vede nella “Roma” reale, ovvero nel fascismo, la garante del proprio ruolo sociale e dell’impunità della propria egemonia nei confronti della massa dei contadini, che costituivano ancora la maggioranza della popolazione, portando in contraccambio una generale adesione politica, qualche volta convinta, nella maggioranza dei casi di pura convenienza.
Nel Cristo si è fermato a Eboli, scritto a Firenze tra il dicembre del ’43 e l’estate del ’44, la riflessione memorialistica viene rafforzata e filtrata attraverso le istanze politiche che emergono nel dibattito resistenziale e che porteranno più tardi l’autore ad attestarsi su posizioni più impegnate, ma anche sempre più autonome rispetto ai partiti tradizionali e alle loro formule “catechistiche”, come disse Levi stesso, il quale, nel ventennio seguente alla fine della guerra, passò dalle fila del partito d’azione, dopo che quest’ultimo esaurì la propria spinta propulsiva, all’attività parlamentare come indipendente di sinistra negli anni sessanta: non a caso, dopo l’esperienza del governo Parri, Levi dirà che il governo è stato ripreso dai “luigini”, termine sprezzante, coniato sul nome di don Luigino, il podestà del paese lucano in cui era confinato, che meglio di altri rappresentava il conformismo piccolo-borghese.
Ultimamente la prospettiva di studio su Cristo si è fermato a Eboli, e in generale su tutta la produzione di Levi, ha privilegiato la dimensione antropologica: le tradizioni, le leggende, i rituali, che l’autore racconta spesso con dovizia di particolari, contribuiscono a fornire notizie preziose su quel mondo contadino che interpretava la realtà in chiave magica, finendo di conseguenza prigioniero di quell’altro mondo che invece si era organizzato e costituito secondo presupposti solidamente razionali (tra gli studi più recenti segnalo quello di un classicista, Giovanni Cipriani, autore di un importante contributo “Carlo Levi tra folklore moderno e tradizione classica”, uscito in appendice al suo volume “Eros maledetto”, Levante, Bari, 2005).
Da parte mia vorrei, invece, proporre una lettura tesa a valorizzare anche l’apporto di lettura politica del mito da parte di Levi utilizzando proprio il ricorso alla tradizione classica, e in particolare alla lettura dell’Eneide, a mio avviso profondamente controcorrente rispetto alla vulgata imposta dal regime proprio in quegli anni, ma che testimonia anche un impegno diretto sul testo virgiliano (che va sicuramente ben oltre la pura fruizione scolastica), fino a costruire una sorta di “antimito” di Roma, anch’esso fondato in apparenza sul linguaggio simbolico del mito, ma in realtà basato sulla concretezza effettuale della storia, che ha in comune col mito fascista di Roma la lettura attualizzante in chiave prettamente politica. L’antimito che si viene costituendo sul fondamento di questa nuova esegesi virgiliana si connette dialetticamente col tema principale di Cristo si è fermato ad Eboli, che, come ha giustamente notato Marcello Aurigemma, uno dei critici più acuti di Levi, è costituito “dall'affascinante scoperta dell'esistenza di una civiltà contadina essenzialmente autonoma, che vorrebbe e dovrebbe organizzarsi come tale, soffocata invece da una civiltà statolatrica e teocratica, forte di eserciti organizzati”.
L’antimito si traduce concretamente nella disillusione dei contadini di fronte allo scoppio della guerra etiopica, come si può ben comprendere dal passo in esame, tratto dal capitolo tredicesimo del racconto (una suddivisione di comodo, preciso subito, visto che il racconto non ha un’articolazione in capitoli stabilita dall’autore), che ho volutamente riprodotto con una certa ampiezza proprio per mettere ben in luce i numerosi motivi di riflessione storico-politica di cui sia il mito sia l’antimito sono in ugual misura portatori (i passi evidenziati sono quelli su cui maggiormente si soffermerà la mia analisi).
È il 3 ottobre 1935, giorno dello scoppio della guerra etiopica: il mito di Roma si manifesta, solleticando la vista e l’udito dei partecipanti e idealmente dei lettori, col suo repertorio abituale, dalla lupa, ai sette colli, all’impero. Il mito lontano si fa presente, concreto presente: l’astrazione simbolica del mito si incarna nella necessità storica della guerra, nella speranza di nuove terre, anzi di una terra promessa, una sorta di Eden lontano, che ricrea l’illusione del mito dell’età dell’oro, “quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a seminarla la roba ci cresce da sola”.
Il rifiuto del mito, che come vedremo è una caratteristica dell’antimito, si attiva subito, in stretta connessione e contrasto con quanto il mito stesso va proponendo, manifestandosi come una sorta di controcanto corale rispetto alla voce imperiosa e al tempo stesso ammiccante di nuove promesse, destinate inesorabilmente ad essere frustrate, che vengono avanzate all’unisono dai due “maestri di scuola”, don Luigino, il podestà, la voce di quella piccola borghesia tirannica che ha scelto la sponda fascista e i suoi miti, e, lontana, pur nel fragore della trasmissione via radio, quella del duce, l’altro maestro elementare. Don Luigino, da parte sua, valorizza la sua funzione sociale agli occhi dei contadini non solo grazie al suo ruolo istituzionale di podestà, ma anche con l’orgoglio dell’appartenenza alla stessa corporazione professionale del duce, quella dei maestri elementari, e, visivamente, con la mimesi impacciata delle gestualità istrioniche di Mussolini, come il discorso dal balcone, e gli ordini imperiosi rivolti nel suo caso non a una folla oceanica, ma, come sottolinea Levi con spietata ironia, al gruppo di studenti affinché intonino “Giovinezza”: il gruppo sparuto dei contadini, a forza raccolto dai carabinieri, risulta, al contrario, del tutto estraneo alle sorti gioiose e progressive di cui il mito di Roma si fa banditore. Non a caso, come più volte accade nel racconto, e in questo caso per ben due volte in poche righe, con l’espressione “quelli di Roma” vengono designati coloro che costituiscono la reale espressione di quel potere tirannico, organizzato sul fondamento della legge, della religione e dell’esercito, che da secoli viene subito senza speranza dai contadini: saranno “quelli di Roma”, a trascinare per i propri interessi i contadini in una guerra da loro non voluta, anzi considerata eticamente sbagliata in quanto guerra di conquista illegale, tale quasi da attirare un’arcana maledizione per l’hybris con cui viene realizzata.
I contadini si fanno scudo della mano per pararsi dai raggi del sole (quei pochi contadini ascoltavano in silenzio, parandosi gli occhi, che batteva loro negli occhi, con la mano, foschi e neri come uccelli notturni.), ma sembrano con quel gesto voler allontanare da sé anche quella luce di progresso, di ordine, di vittoria che è intimamente connessa con le promesse avanzate: quando il mito si traduce in storia, nella fattispecie in guerra, si concretizza nella multicolore dimensione della bandiera tricolore, così come era avvenuto pochi anni prima per la prima guerra mondiale.
Per usare la celebre frase dell’Apocalisse, che Leopardi utilizzò come ex-ergo per la Ginestra, a un lettore di solidi presupposti razionalistici può sorgere l’idea che ancora una volta gli uomini abbiano preferito la tenebra alla luce. Ma questi colori così luminosi sono avvertiti come accecanti oltre che estranei: forte della sua attività di pittore, Levi sa bene che il nero è un non colore, in quanto corrisponde all’assenza di ogni tonalità cromatica: alla presunta luce della storia i contadini lucani hanno preferito la scelta consapevole di continuare a vivere nelle tenebre, in quel nero assoluto che mescola e confonde il colore della terra su cui si volge la loro esistenza con la perennità della morte (Il loro colore è uno solo, quello stesso dei loro occhi e dei loro vestiti, e non è un colore, ma è l’oscurità della terra e della morte). E i contadini, come uccelli di morte, una sorta di disincantate Erinni, si chiudono diffidenti di fronte ai miti di una storia lontana ed estranea, che forse avvertono come origine di quel presente che è il medesimo da secoli e che si ripercuote sempre ed esclusivamente su di loro: anche in questo caso la guerra l’hanno voluta “quelli di Roma”, ma nel nome di quella lupa, di quell’impero, di quella gloria che da Roma traggono origine, l’avrebbero fatta combattere a loro.
Levi sa bene condurre il contrasto attraverso l’uso di sapienti antitesi che svolgono e strutturano l’intera narrazione pur nella loro apparente elementarità: da un lato il podestà, il duce, il potere con i suoi miti e i suoi simboli luminosi, dall’altro i contadini, con il buio della loro eterna disillusione e della loro rassegnata pazienza, anch’essi con i loro simboli, selvaggi e immediati, come la buia terra, in questo caso non madre datrice di vita, ma di morte, o gli uccelli, anch’essi di morte. Ma l’autore sembra rendersi ben conto del fatto che questa contrapposizione non è equilibrata: la storia di Roma, col suo retaggio mitologico, e la sua capacità di tradursi in storia passata e presente non è minimamente comparabile con la non-storia dei contadini e del loro mondo. La magia elementare che si associa a questa realtà, fatta di formule, riti, magie, pozioni, pur nel suo secolare vitalismo, non è confrontabile con il mito che si manifesta strutturato e codificato dalla storia stessa.
Sia ben chiaro che il giudizio di Levi non è di valore, anzi il contrario. Come ha ben argomentato il critico francese Dominique Fernandez (a cui per inciso va dato atto di aver tradotto Levi in francese e di averlo per primo inserito nel grande circuito della cultura europea), “se Levi ha compreso il Sud contadino come nessun altro è stato capace di fare, lo si deve alla circostanza che egli ha saputo intuire la protesta implicita nel mondo arcaico e primitivo dei contadini contro l'uomo occidentale”, cioè contro l’uomo che dei miti come quelli di Roma ha saputo fare lo strumento per l’organizzazione della realtà a proprio esclusivo vantaggio.
I contadini lucani non si lasciano incantare dal mito di Roma e dalla sottesa propaganda politica perché sanno bene che nulla possono contro le forze organizzate degli stati, delle teocrazie e degli eserciti: potranno anche combattere le loro guerre ed essere dominati da queste forze, ma, per riprendere le parole del testo, gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi a essere dominati,non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà a loro radicalmente nemica.
Allargando la prospettiva al problema fondamentale della questione meridionale, ovvero la mancata integrazione di gran parte del Sud al sistema di regole, economiche, sociali e politiche, che è invece espressione dello Stato, si può evidenziare come per Levi, uomo del Nord, la responsabilità sia da attribuire all’assenza nel Mezzogiorno di una vera e propria classe borghese; nel Sud, la piccola borghesia, incapace a sua volta di identificarsi come classe sociale e di organizzarsi politicamente, si è appoggiata di volta in volta, nel corso del tempo, ai poteri forti e strutturati della monarchia borbonica, della Chiesa, dell’esercito per svolgere un potere di controllo e di sfruttamento sulla classe contadina, abbandonata alla miseria, alla malaria e alla sua cultura millenaria che si legava strettamente alle sue origini terrigeni o anche ctonie, ma che non si sapeva organizzare storicamente in forme strutturate.
A differenza di Sciascia, che postulerà, pur nella diversa realtà della Sicilia, la doppia esistenza dello Stato e dell’Antistato mafioso, che proprio per essere forma organizzata deve disporre di tutto quell’apparato di regole, norme, leggi che costituisce lo Stato, Levi colloca, invece, questa genesi, a mio avviso, proprio nell’opposizione tra mito e antimito.
Non è mia intenzione individuare arbitrariamente nell’antimito una categoria interpretativa che non compare espressamente né in Levi né tanto meno nella letteratura critica, quanto piuttosto scorgere in esso una proposta di lettura che giustifichi organicamente il significato profondo di questa sezione del racconto, il cui spessore culturale non è stato forse compiutamente ravvisato nei suoi molteplici aspetti.
L’antimito si manifesta esteriormente come una sorta di passivo rifiuto del mito vincente: appare più che altro come la diretta conseguenza di una mentalità retrograda difficilmente sgominabile, che si traduce in una forma di rassegnata e ostentata indifferenza, come il silenzio dei contadini di fronte al canto di “Giovinezza” intonato dal podestà o come il “controcanto” alle parole di quest’ultimo piene di riferimenti alla Romanità trionfante, cui ho fatto sopra riferimento.
Ma Levi non si limita a constatare: vuole comprendere le ragioni di questo secolare disincanto, di questa radicata diffidenza verso il potere costituito e verso i suoi miti. Sa bene, come dirà poi lucidamente nell’introduzione alla raccolta “Le parole sono pietre”, nel dialogo che intratterrà nel 1952, ai tempi della contrastata applicazione della riforma agraria, con l’arcivescovo di Santa Severina in Calabria (il piemontese Giovanni Dadone, diventato poi vescovo di Fossano, uno degli esponenti più illuminati del cattolicesimo democratico all’interno del clero italiano del secondo dopoguerra), che l’ostilità del mondo contadino non cesserà mai, neppure in presenza di ogni gesto, anche il più nobile e disinteressato, che potrà venire dalle forme di potere che tradizionalmente ha avvertito come nemico, appunto la Chiesa stessa, l’esercito, lo Stato.
Levi, quindi, procede nella sua riflessione ricorrendo razionalmente allo stesso retaggio, il mito antico, la storia passata e più recente, l’ideologia politica e le forme repressive in cui si è manifestata, con cui il potere ha storicamente legittimato la sua oppressione, ponendosi ovviamente dal punto di vista dei contadini, non tanto nel senso scontato di “schierarsi” idealmente dalla loro parte, quanto soprattutto di porsi come interprete mediante le loro stesse categorie mentali e, di conseguenze, storiche e politiche: quando dovrà confrontarsi col mito e le sue simbologie arriverà a definire implicitamente l’antimito dei contadini, che non è il semplice e scontato rifiuto del mito dominante, quanto piuttosto il suo consapevole rovesciamento, come nel corso del tempo si è andato dimostrando: infatti, il retaggio della tradizione, con i suoi rituali, le sue formule, è il linguaggio eterno col quale l’antimito dei contadini si manifesta nella storia, anche se nel concreto manifestarsi storico assume, in modo apparentemente paradossale, le forme di una non-storia, come conferma il ricordo delle guerre combattute senza i gonfaloni colorati, cioè le guerre imposte dai dominatori antichi e recenti, per usare le parole del testo, guerre infelici e destinate sempre a essere perdute, feroci e disperate, e incomprensibili agli storici, e come tali escluse dallo stesso concetto di storia, proprio come risultano esclusi coloro che l’avevano combattute. E la storia continuerà sempre a ripetersi manifestandosi con i suoi vincenti e oppressivi vessilli colorati.
Lo scrittore, quindi, inizia un percorso che ha come obiettivo il tentativo di porre questo mondo sullo stesso piano di queste forze organizzate: è un percorso, quindi, dichiaratamente storico, ma che ha come prima tappa obbligata, quella di partenza, il mito, che, esattamente, come il mito fascista di Roma, deve costituirsi in simboli e nel tempo stesso manifestarsi storicamente; come detto, anche per l’elaborazione dell’antimito contadino di Roma, Levi procederà ad un’esegesi del tutto politica, dopo aver tradotto ogni singolo elemento in storia effettuale ricorrendo proprio a quel medesimo apparato col quale anche il mito fascista di Roma era stato concepito e definito, a iniziare proprio dall’Eneide virgiliana.
Non è, pertanto, un caso che Virgilio sia presentato come storico di fonti mitologiche, non come un poeta cantore di fatti menzogneri: Levi vuole dimostrare la continuità rigorosamente storica tra il passato mitico e la storia contemporanea. Le fonti mitologiche costituiscono l’archetipo immutabile in cui il presente si rispecchia, con le stesse fratture non componibili tra forme diverse di società che hanno come origine due civiltà tra loro incompatibili ed estranee: da un lato c’era quella dei contadini italici, quasi cristallizzati nel loro colore nero e con tratti somatici descritti con un puntiglio quasi lombrosiano, addirittura nella stessa fisionomica (Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei Romani, né dei Greci, né degli Etruschi, né dei Normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime), ignari di culti e addirittura di religione (forse questa puntualizzazione così netta e marcata di Levi si deve all’opinione, allora particolarmente diffusa e avvallata da studiosi insigni come il Wissowa che la religiosità delle popolazioni italiche fosse particolarmente primitiva o addirittura insussistente visto che non avrebbe conosciuto una mitologia elaborata come quella greca).
Dall’altro lato stavano i Troiani, i conquistatori, che giungono da Troia portando i valori opposti alla civiltà contadina di cui saranno dominatori (leggiamo ora all’inizio di pag. 2 dell’handout: I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, e la religione dello Stato. La pietas di Enea non poteva essere capita dagli antichi italiani, che vivevano nei campi con gli animali. E portavano l’esercito, le armi, gli scudi, l’araldica e la guerra. La loro religione era feroce, comportava i sacrifici umani: sulla pira di Pallante, il pio Enea sgozza i prigionieri, come sacrificio ai suoi dèi dello Stato. Ma quegli italiani antichissimi, invece, erano contadini, senza religione e senza sacrificio: si noti per inciso il curioso lapsus per il quale i Troiani sono detti “fenici”, forse per confusione con i Cartaginesi).
Sono proprio i Troiani, quindi, i primi a importare in Italia quelle forme organizzate di oppressione con cui i contadini dovranno più volte secolarmente fare i conti, nel tentativo di salvaguardare la propria identità storica, e che poi l’autore analizzerà nel prosieguo del racconto: la loro collocazione nel mito funge paradossalmente da garanzia della verità storica della tesi dell’autore, che troverà ulteriore conferma in altri momenti storicamente documentabili e sempre più temporalmente vicini, come la conquista romana, di cui mi occuperò a breve e che trovate menzionata a pag. 2 dell’handout, alla fine del testo di Levi, per poi passare alla lotta contro l’oppressione feudale e, come ultima delle guerre inesorabilmente andate sconfitte, il brigantaggio, che al tempo dell’autore ancora alimentava l’immaginario dei contadini lucani mediante forme rituali tipiche di una mitologia ancora magica che suonavano fin troppo estranee e incomprensibili ai moderni sacerdoti dei razionali miti storici, come incomprensibili erano state le loro guerre e la loro storia.
Non sarebbe forse sbagliato definire queste pagine come l’ “archeologia” di Carlo Levi, prendendo come fin troppo facile paragone Tucidide: ovviamente in queste pagine il nostro autore non ha in mente lo storico greco, ma colpiscono alcune analogie e, soprattutto, parecchie differenze. Tucidide, come Levi, vuole soprattutto analizzare il presente contingente, la grande guerra del Peloponneso tra Ateniesi e Spartani, ma col presupposto che la storia più antica, appunto l’archeologia, in cui storia e mito si confondono, sia impossibile da valutare dal punto di vista della grandezza e quindi da comprendere; al contrario Levi guarda al passato più lontano, addirittura a quello mitico come ipostasi della storia più recente e non è quindi contraddittorio che di questo mito originario sia proprio Virgilio lo storico, proprio tenendo poi conto dei successivi sviluppi che daranno conferma del coerente mutamento in storia del mito. Non è pertanto anacronistica, in questa prospettiva che dalla mitologia arriva fino all’età contemporanea, che Levi ricorra a definire il mondo contadino come Italia e i suoi abitanti come italiani: l’antimito garantisce di fatto quell’identità culturale e quel senso di appartenenza, che sotto il profilo politico la Roma del mito e della storia non è stata in grado di realizzare, diventando responsabile essa stessa, per usare la felice espressione di Andrea Giardina, dell’incompiuta identità italiana.
Dopo Enea, infatti, verranno i Romani, che altro non sono che i Troiani del mito che hanno assunto la lingua dei vinti: qui Levi fa forse allusione alla richiesta che Giunone avanza a Giove nell’ultimo libro dell’Eneide, al v. 825, quando chiede che i vinti non assumano il nome e i costumi dei vincitori e non mutino il loro linguaggio (aut vocem mutare viros), ma rovescia quanto affermato nel poema, poiché in questo modo non sono i Latini a salvaguardare la loro cultura, ma i Troiani a trasformarsi di fatto nei Romani che si manifesteranno nella storia con i simboli della propria mitologia vincente, le loro lupe, le loro aquile, e, storicamente, il loro impero; assai a fatica essi riusciranno a dominare questi antichi popoli (E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino) e finiranno poi per chiuderli, con il loro ordine politico, militare e legislativo, nel bozzolo della pazienza e della rassegnazione (leggo ora la conclusione del testo di Levi a pag. 2: Dopo questa seconda guerra nazionale, la civiltà contadina, chiusa nell’ordine romano, restò come addormentata nella sua pazienza): probabilmente in quest’ultima riflessione agisce in Levi il ricordo delle parole che Livio (IX, 3, 12) pone in bocca al vecchio capo sannita Erennio che, richiesto di un fornire un parere, sconsiglia di sottoporre i Romani all’ignominia delle Forche Caudine, poiché un’umiliazione così atroce avrebbe agevolmente rinfocolato il loro desiderio di vendetta e di conquista:ea est Romana gens, quae victa quiescere nesciat, la stirpe romana è tale da non stare mai in pace, neppure quando è sconfitta, al contrario dei popoli contadini che saranno costretti, loro malgrado, a quiescere assai a lungo. E non sarebbe casuale la ripresa di una considerazione così significativa tenendo conto che proveniva da uno dei capi più venerati e rispettati del popolo sannita, quello che, tra le popolazioni italiche, più di altri aveva dato filo da torcere ai Romani e al loro espansionismo: è interessante notare tra l’altro come il rituale di domandare il consiglio di un vecchio capo militare dall’altissimo prestigio sociale sulle questioni più spinose fosse, al tempo di Levi, ancora usato con i briganti superstiti, come testimonia in un altro punto del racconto.
Sono persuaso del fatto che questo processo concettuale scaturisca, naturalmente, da una rilettura originale di molti testi moderni dedicati alla questione meridionale in termini filosofici e politico-economici, dagli ottocenteschi Pietro Colletta e Vincenzo Cuoco, che si riallacciavano alla tradizione del De antiquissima Italorum sapientia di Vico, oppure a quanti si riconoscevano nel filone critico, in auge nel primo Ottocento, che tendeva all’esaltazione, talora in chiave politicamente federalista, di altre tradizioni italiche non romane spesso in contrapposizione a queste ultime, come Giuseppe Micali nel suo allora celebre L’Italia avanti il dominio dei Romani, oppure Giuseppe Maria Galanti (che condannò il dispotismo dei Romani esercitato contro il popolo dei Sanniti, al contrario presentato come portatore di antiche e venerande virtù), fino al più moderno Giustino Fortunato e al quasi contemporaneo Gramsci degli scritti su questo tema anteriori alla sua carcerazione, ma, come spero di poter dimostrare dai confronti anche un po’ minuziosi che porterò in seguito, sono altresì convinto che Levi tragga linfa preziosa anche da una lunga e confidenziale pratica col poema virgiliano, in particolare col libro settimo dedicato agli exordia del conflitto tra Troiani e Latini, che si conclude col catalogo degli antichi guerrieri italici, impreziosito da numerosi riferimenti eruditi e antiquari sulla storia dell’Italia antica: questa frequentazione si traduce sul piano narrativo con un meditato ricorso alla pratica intertestuale, attraverso la quale l’ipotesto epico, scopertamente menzionato solo una volta con una citazione dal libro III dell’Eneide, emerge in filigrana nel tessuto linguistico ed espressivo del racconto, traducendosi consapevolmente in fondamento ideologico e storicamente effettuale dell’antimito, che prende corpo, come si è detto, come capovolgimento del mito vincente della Roma ufficiale sbandierata nel presente dagli attuali rappresentanti, i fascisti, dello storico potere oppressivo.
Ho individuato alcuni motivi che mi sembrano particolarmente rilevanti: nella contrapposizione polare che oppone i Troiani agli italici, il primo dato che appare evidente, e che per la sua potenziale valenza eversiva mina alle fondamenta il presupposto stesso del mito di Roma nell’ottica fascista, ma, in generale, di ogni prospettiva che fa di Roma e dei suoi miti la radice privilegiata di una continuità culturale, è quello dell’estraneità di Enea e dei Troiani alla tradizione italica.
Per ben due volte i Troiani sono definiti “conquistatori”, rispettivamente “asiatici” e “fenici”, come a rimarcare l’impossibilità di ogni contatto di civiltà e l’incomunicabilità dei valori di cui sono portatori; è del resto lo stesso mito di Enea a risultare estraneo alla tradizione italica e questa difficoltà di integrazione è palpabile nel corso del poema: del resto l’imbarazzo era già degli antichi e giustamente Antonio La Penna, in un recente importantissimo lavoro di sintesi su Virgilio (“L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio”, da poco apparso presso Laterza), ha messo in luce come la leggenda di Enea difficilmente potesse avere prima di Augusto quelle caratteristiche di leggenda “popolare” e “nazionale” in cui potesse riconoscersi agevolmente un gruppo sociale più ampio di quelle famiglie nobili le quali, vantando ascendenze da eroi troiani o da Albalonga, diffusero a Roma il mito di Enea in maniera più incisiva di quanto non avessero fatto nei secoli passati gli eruditi e soprattutto i poeti arcaici come Nevio ed Ennio.
Non è un caso che sia proprio externus, straniero, l’epiteto col quale Enea è frequentemente designato, in particolare nel settimo libro del poema: da una prima veloce ricognizione emerge come la connotazione dell’epiteto tendi ad assestarsi, nello svolgimento del libro, su una dimensione sempre più marcatamente negativa, associandosi spesso in modo più o meno esplicito all’idea di appropriazione del regno da parte dello straniero. La prima attestazione è ai vv. 68-70 il vate che assiste al prodigio delle api che si intrecciano sulla cima del sacro lauro che Latino aveva consacrato ad Apollo esclama (nell’handout è il testo n. 1 di Virgilio a pag. 2, Continuo vates: « Externum cernimus » inquit / « adventare virum et partis petere agmen easdem / partibus ex isdem et summa dominarier arce »): Enea non è qui nominato ex professo, ma si chiaramente si allude, pur nella voluta oscurità del linguaggio oracolare (facilmente interpretabile però da ogni lettore antico e moderno), alla sua conquista. La seconda attestazione è sempre di matrice profetica, ai vv. 96-101 (è il secondo testo virgiliano nell’handout a pag. 2: mi limito alla sezione fondamentale del testo, externi venient generi, qui sanguine nostrum/ nomen in astra ferant): qui è Fauno, padre di Latino, figura dai connotati divini, a fornire al figlio un responso da cui emerge come solo con l’apporto di uno straniero, qui associato a vincoli familiari col termine “genero” e non più genericamente come “uomo”, i latini riusciranno ad avere fama diffusa fino al cielo e, soprattutto, a conseguire il dominio universale. Il rapporto parentale implica la fusione o, almeno, un patto di reciproco rispetto fondato su quei foedera aeterna che Enea e Latino sanciranno nel dodicesimo libro, con l’impegno da parte del troiano di non imporre agl’Italici di obbedire ai Troiani (vv. 189-90: non ego nec Teucris Italos parere iubebo/ nec mihi regna peto).
Ma questa prospettiva, nella radicale antinomia tra mito e antimito, è esclusa in partenza da Levi, per il quale l’estraneità di Enea è, semmai, giustificata proprio secondo il punto di vista degli stessi sconfitti: sempre nel libro settimo, al v. 367, quasi in replica alle parole profetiche del venerando Fauno, la regina Amata, già in preda alla furia Aletto scagliatale dall’incontenibile odio di Giunone verso i Troiani, qualificava Enea come gener externa de gente Latinis (genero di gente straniera ai latini); la stessa Aletto, poco dopo, al v. 424, assunti i panni di Càlibe, vecchia sacerdotessa di Giunone, appare in sogno a Turno esortandolo alla guerra visto che Latino gli nega le nozze promesse con Lavinia ed è in cerca di un erede straniero per il suo regno (externusque in regnum quaeritur haeres): il piano dell’estraneità si sposta in una dimensione più concreta come quella della successione ereditaria, tema assi suscettibile non solo in una società moderata da ferree regole di diritto ereditario, come la romana, ma forse ancora di più all’interno del mondo italico, arcaico e moderno, tenendo conto della visceralità quasi ossessiva con cui la civiltà contadina provvede alla salvaguardia della “roba” all’interno del proprio gruppo familiare. Enea, straniero ed estraneo, finisce quindi per appropriarsi, mediante il vincolo parentale, del potere, ma anche della disposizione concreta e materiale dei beni.
Levi, quindi, evita di menzionare qualsiasi forma di negoziazione o di accordo tra Latini e Troiani: si tratta molto probabilmente di una scelta voluta, proprio allo scopo di rimarcare la netta contrapposizione tra i due popoli e le funeste conseguenze anche sul piano storico: la sintesi migliore di questo concetto è rappresentata icasticamente dalle parole che Giuturna, sorella di Turno, pronuncia con le sembianze di Camerte, incitando all’estrema lotta contro i Troiani e i loro alleati etruschi (quest’ultimi non a caso menzionati anche da Levi che motiva questa alleanza con la medesima origine semitica) nel dodicesimo libro ai vv. 236-7 (il testo virgiliano n. 3 tra le pp. 2 e 3 dell’handout): non patria amissa dominis parere superbis/cogemur, qui nunc lenti consedimus arvis (“una volta persa la nostra patria, saremo costretti ad obbedire a superbi padroni, noi che sediamo ora indolenti nei campi”). All’esperto di poesia virgiliana, questi versi richiamano subito la prima bucolica e rimandano al dolore di Melibeo che è costretto ad abbandonare il suo mondo agreste in nome di una violenza proveniente dall’esterno: c’è un ulteriore riscontro della sensibilità con cui il poeta guarda al mondo dei vinti, oppressi senza speranza dalla forza violenta dei superbi, elemento che, se mai fosse il caso, smentisce ulteriormente l’interpretazione corrente negli anni del fascismo di un Virgilio vate dell’impero e giustificatore, sia pure in nome della necessità storica, della sua violenza. Questi versi potrebbero benissimo fungere da sintesi felicissima dell’antimito di Roma e del suo manifestarsi storico: i popoli italici, abituati esclusivamente alle pratiche agricole col retaggio di mentalità e di cultura ad esse connesso, dopo la conquista da parte dei Troiani hanno perso la loro patria, non chiaramente nel senso spaziale, ma nel senso di luogo di appartenenza, e, loro malgrado, sono e saranno anche oltre costretti (e in questo senso il futuro cogemur è parecchio eloquente) a un ruolo subalterno rispetto ai vincitori, quasi una razza inferiore, teoria che in quegli anni non poteva non suonare drammaticamente familiare allo stesso Levi vittima, in quanto ebreo, delle discriminazioni razziali imposte dal fascismo nel 1938.
I contadini lucani finiscono, quindi, per essere nella prospettiva di Levi i continuatori di quell’umile Italia agricola e virtuosamente dedita al proprio lavoro, che conosce la guerra solo come difesa dall’attacco di forze meglio organizzate: l’insistenza al motivo dell’umile Italia ritorna anche con ben due citazioni dirette, entrambe, come vedremo, in un modo o nell’altro sbagliate, quella del terzo libro dell’Eneide, vv. 522-23, Humilemque vidimus Italiam, e quella dei vv. 106-8 del primo canto dell’Inferno dantesco (quell’umile Italia per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute).
Le due citazioni, a un’analisi un po’ pedante, si presentano entrambe imprecise: il testo virgiliano, senza che dagli apparati delle principali edizioni (Sabbadini-Geymonat, Mynors, Paratore) risultino varianti in questo senso, riporta il presente videmus, e non il perfetto vidimus; inoltre, il contesto generale del passo all’interno del poema, che non ho riportato per brevità, esige per logica un tempo al presente e non un perfetto, peraltro metricamente inammissibile nella scansione dell’esametro. Che genesi ha quindi quest’errore? A mio avviso non si tratterrebbe del classico e banale lapsus di memoria, ma di un errore voluto e dichiarato, che rientra nel processo di elaborazione dell’antimito e che si motiva per due ragioni: la prima è che il soggetto del verbo, quel “noi” della prima persona plurale, sembra riferito direttamente all’autore, a Levi stesso che in questo modo vuole quasi assumersi la responsabilità di giustificare storicamente la continuità tra i contadini lucani e gli antichi abitanti apparsi davanti ai conquistatori troiani, diversi ed estranei proprio come era estraneo Enea; la seconda motivazione consiste, a mio parere, nel fatto che l’espressione humilem Italiam si ricollega direttamente alla successiva citazione dantesca, non solo per la ripresa letterale, ma per il nuovo valore, comune a entrambi i testi, che Levi vuole assegnare a questo aggettivo e che costituisce al cifra specifica di queste popolazioni antiche e, di riflesso, dei loro continuatori. Se per Virgilio, secondo l’esegesi già prospettata da Servio, humilis sta ad indicare la costa piana ed ha quindi un significato squisitamente geografico, per Dante, stando alla maggioranza dei commentatori che si avvalgono di altri riferimenti danteschi, come dal quarto libro del Convivio o dal v. 85 del sesto canto del Purgatorio, umile varrebbe per “infelice”, “misera”, con riferimento alle sue condizioni politiche senza la guida dell’imperatore. Qui Levi, con un procedimento che potremmo chiamare “alessandrino”, sembra assegnare a questo aggettivo un comune significato mutuato direttamente dalla propria etimologia, da humus, terra: questa è l’Italia che ha sempre lavorato la terra ed è da qui che ha tratto la sua cultura. La citazione dantesca, che trovate citata al completo a p. 3 testo n. 4, potrebbe, inoltre, risultare palesemente incongruente poiché Dante alterna i nomi dei vincitori, i troiani Eurialo e Niso, a quelli dei vinti, gli italici Camilla e Turno, come a voler dimostrare che, dopo la guerra che ha visto la morte di questi giovani eroi, il patto tra troiani e italici stipulato tra Enea e Latino al dodicesimo dell’Eneide ha veramente cementato l’Italia, seppure politicamente umile. Ma, come si è detto, Levi sembra escludere a priori questa possibilità di conciliazione tra i due mondi: con eccesso di zelo, lo sostengo solo come mera ipotesi di lavoro, a mio parere, questa visione negativa, semmai accresciuta dall’idea di indiscriminata crudeltà che è tipica della guerra, giustifica l’omissione dell’originale dantesco fia salute, che era riferito al veltro. L’assoggettamento di cui parla Levi indica una condizione storicamente permanente che non ha trovato allora alcuna possibile salvezza da parte dell’antico veltro dantesco né tanto meno, implicitamente, da parte del più vicino “uomo della Provvidenza”, Mussolini con le sue guerre, le sue lupe e il suo impero: non è forse un caso che proprio da questo punto faccia seguito il passaggio dalla fase mitologica a quella storica. Mi rendo però conto di come quest’ultima proposta corra il rischio di voler leggere forse troppo oltre le righe il testo di Levi.
Mi pare, invece, incontrovertibile come sia proprio il legame con la terra delle popolazioni italiche a costituire, insieme col rifiuto della guerra e dei sistemi organizzati e con l’appartenenza alla perenne continuità della non-storia, uno dei capisaldi dell’antimito che Levi elabora nel corso di queste pagine: addirittura il cerchio si salda in uno spregiudicato nesso tra remoto passato e passato più recente, quasi contemporaneo. Gli antichi abitanti dell’Italia sono assimilati ai briganti che hanno dovuto per necessità trasformare in armi gli oggetti del loro quotidiano lavoro nei campi: la guerra, da quella del mito tra Troiani e Italici a quella della conquista etiopica e a ogni conflitto più recente che si proponga come portatore di progresso e di benessere, è in realtà il confronto politico, oltre che militare, tra culture diverse, che vedrà sempre soccombente quella parte per forza di realtà più arcaica, più legata a valori che sembrano sorpassati e quindi storicamente perdenti, e che non avrà altra reazione che la violenza disperata e storicamente incomprensibile, come quella dei briganti antichi e moderni.
Anche in questo caso le argomentazioni dello scrittore sottendono, a mio avviso, una lettura attenta e originale del testo virgiliano, sempre nel settimo libro dell’Eneide: il riferimento al brigantaggio trova una sponda significativa nei vv. 746-49, nei quali, all’interno del catalogo dei combattenti italici, si fa accenno a Ufente e al suo popolo, gli Equi, i quali vengono presentati come gente selvaggia, abituata alla pratica della caccia e della più dura coltivazione, ma che lavorano in armi la terra e, nel desiderio di ammassare sempre nuovo bottino, vivono di rapina (cfr. testo n. 5 dell’handout a pag. 3: Horrida precipue cui gens adsuetaque multo/ venatu nemorum, duris Aequicula glaebis./ Armati terram exercent sempreque recentis/convectare iuvat praedas et vivere rapto).
Ma il ricordo di Ufente, come degli altri capi italici, è troppo labile perché possa essere ricordato: Virgilio, poco prima, al v. 641 è stato costretto a invocare nuovamente le Muse perché lo soccorrano nell’impresa di rievocare gli eserciti e le forze dell’antica Italia che allora combatterono, visto che, come afferma al v. 646, solo un debole soffio di fama è giunto ai posteri da questo tempo così remoto (ad nos vix tenuis famae perlabitur aura): è la conferma implicita dell’incomprensione, e quindi della dimenticanza, che gli storici, e anche Virgilio, come visto, è annoverato tra costoro, hanno mostrato verso le vicende del mondo contadino.
E altri popoli, come gli Equi sopra citati, abituati alla pratica dei campi, ed anche, come vuole Levi, antenati dei briganti, sono costretti per salvare la propria civiltà a ricorrere alle armi: Virgilio più volte sottolinea come tutti i popoli italici, vissuti finora in una secolare e imperturbabile tranquillità, non si sottraggano alla guerra con i Troiani. Mi limito a qualche veloce riferimento, che però conferma il presupposto di fondo di Levi: la vita dei contadini, scandita immutabile da secoli in modo pacifico e naturale, è stata sconvolta da una guerra vissuta e sentita come di conquista a cui, tuttavia, si preparano con sorprendente tenacia e accanimento, come si legge, con sintesi assai efficacia, al v. 623 in cui l’intera Ausonia, finora tranquilla, prende fuoco (ardet inexcita Ausonia atque immobilis ante): la determinazione temporale ante conferma come sia proprio questa guerra, con la rottura di un pacifico e immutabile modus vivendi, a costituire l’inizio di quella eterna frattura sociale che perdura fino all’età contemporanea e che costituisce il vero fondamento della questione meridionale.
La consapevolezza della posta in gioco di questo conflitto è di tale portata che nessun popolo si sottrae all’esigenza di combattere, seppure da tempo immemorabile non più pratico dell’arte militare: è l’esempio di Messapo, il quale richiama alle armi il suo popolo da tempo impigrita e non più avvezza a combattere (vv. 693-94: iam pridem resides populos desuetaque bello/agmina in arma vocat). Ma il passo che meglio di tutto sintetizza il pensiero di Levi e che forse egli stesso aveva più a mente nella stesura di queste riflessioni, per la forza icastica con cui viene rappresentata questa umile Italia in procinto di affrontare una prova così distruttiva, è quello immediatamente precedente e che si trova alla fine dell’handout, il n. 6 a pag. 3: si tratta della descrizione della legio agrestis che segue il re prenestino Cècubo, raffigurata con elementi che ricordano più gli straccioni di Valmy piuttosto che una qualsiasi forza militare. Un’armata del genere non ha ovviamente nulla di una legio romana, in termini di equipaggiamento e di disciplina militare: ho volutamente messo in rilievo nel testo come siano notevoli le consonanze con quanto scritto da Levi, in particolare nel fatto che molti dei componenti di questa armata Brancaleone ante litteram non conoscano armi regolari, neppure gli strumenti militari indispensabili, come gli scudi e il carro, improvvisando la costruzione di rudimentali ordigni, come le ghiande di livido piombo, e condannandosi per tutto questo a una inevitabile sconfitta. Levi sposta la riflessione in termini di contrapposizione culturale: i Troiani hanno saputo costituire un vero e proprio esercito, con i tratti caratteristici di quell’organizzazione e quella disciplina che saranno poi perfezionati dai Romani della storia. Alla forza oggettiva dell’esercito organizzato hanno poi aggiunto quella simbolica, ma altrettanto efficace, del mito che di questa forza oppressiva si farà nella storia messaggero col suo repertorio, la lupa, le aquile, i colli: per usare le parole dello scrittore “E portavano l’esercito, le armi, gli scudi, l’araldica e la guerra.”, così come li portavano, tra gli altri, anche i fascisti nel 1935. Gli Italici, invece, non possono opporre che delle bande sparse, come erano sparsi ed eterogenei i componenti della legio agrestis virgiliana, per di più costretti a mutare in armi quelli che erano per secoli stati i loro strumenti di lavoro nei campi, visto che la maggioranza di loro addirittura non è armata (v. 685: Non illis omnibus arma): il mutamento di uso non implica, però, per Levi un cambiamento di civiltà. La guerra si era configurata, allora come poi altre volte, come una necessità inderogabile, che non scalfisce l’immutabilità millenaria del mondo contadino, né a livello di organizzazione sociale né di consapevolezza politica: anche in questo caso Roma funge da antimito per gli Italici.
In quest’ottica così culturalmente complessa si motiva, quindi, la continuità tra gli antichi briganti e quelli moderni: l’analisi di Levi non è, quindi, lontanamente assimilabile al patetico tentativo, effettuato già negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, di riabilitare il brigantaggio, magari ammantandolo di un’aura romantica e sentimentale, o, ancor peggio, come propone una certa storiografia più recente, di legittimarlo con motivazioni di ordine psuedo-religioso, come la difesa della tradizione cattolica minacciata dai rivoluzionari francesi prima, e dai piemontesi, laici e massoni, poi.
Anche l’approccio al poema virgiliano dimostra spirito critico davvero notevole, capace di una sostanziale autonomia rispetto alle interpretazioni dominanti in età fascista: Antonio La Penna, nella conclusione di uno dei capitoli del suo già citato volume su Virgilio, in garbata polemica con lo studioso americano Adam Parry, secondo il quale il poeta in realtà protesterebbe contro la conquista dell’Italia e la distruzione della cultura italica, sostiene giustamente che nell’Eneide non c’è traccia di spirito italico antiromano, poiché Roma e l’Italia sono strettamente unite come cuore dell’impero, alla cui formazione l’Italia ha fornito un contributo fondamentale. Una tesi del genere, continua La Penna, sarebbe risultata pienamente accettabile da parte di molti scrittori federalisti dell’Ottocento o ai vari Micali o Galanti, ma di certo, aggiungiamo, non sarebbe stata condivisa da Levi, il quale, all’interno della sua lettura prevalentemente politica, sa fornire un contributo che ben riflette la complessa molteplicità di suggestioni con cui la cultura del Novecento si accosta al mito e che questo, a sua volta, riesce a stimolare. |
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